"E' stato il primo impatto con un Paese in via di sviluppo - ha detto Cristina - con l'Africa, ma è stato soprattutto la conferma del mio amore per queste missioni e la forte volontà di lavorare per organizzazioni umanitarie".
Lo dice con la sua vocina dolce, giovane, solo apparentemente fragile, perché in realtà è una ragazza forte e determinata. Dopo questo primo periodo in Africa, Cristina Turbanti decide di perfezionare il suo inglese e si trasferisce a Londra, sempre con il medesimo obiettivo: far parte di missioni umanitarie. Nel frattempo ha lavorato in un ospedale pubblico e ha seguito un corso di specializzazione in Tropical nursing, necessario per poi inviare il curriculum all'organizzazione Medici senza Frontiere. Il corso, infatti, insegna come lavorare in contesti particolari, con scarse risorse, affrontando anche malattie infettive. Ovviamente Medici senza Frontiere ha accettato la sua domanda e lei ha superato poi la selezione, pronta per essere inviata in una prima missione. Di solito ci vuole un po' di tempo, affinché la prima missione sia scelta con cura e ritenuta adatta a un "neofita", pur se con un bel curriculum e un'ottima preparazione. A Cristina non è andata così: quando quella famosa chiamata è arrivata, le hanno detto: "Vuoi andare tra 4 giorni in Bangladesh che c'è un'epidemia di difterite?". E lei ha accettato.
"Ero un po' spaventata. Mi sono detta: Cavolo, adesso si parte davvero! Non sarei riuscita a dire di no, anche se mi rendevo conto che era arrivato il momento, che tutto quello che desideravo si stava concretizzando. Quindi mi sono messa a disposizione, ho fatto vaccini su vaccini perché ce ne erano alcuni obbligatori prima della partenza e senza pensarci troppo, mi sono trovata sul volo. Era il 23 dicembre".
Cristina arriva nella capitale e passa due giorni lì, parla con i vertici dell'organizzazione in Bangladesh e si rende conto che l'emergenza è grande e non c'è personale. In due giorni mettono in piedi un ospedale con posti letto, cibo, medicine... i pazienti continuavano ad arrivare a centinaia al giorno...
Non si gioca più! E' vero che questo era il tuo desiderio, ma quando l'hai toccato con mano, ti sei pentita?
"No, non mi sono mai pentita! Però mi sono chiesta: ce la farò? Ho capito che davvero si doveva cominciare "a giocare" sul serio!".
Quello che Cristina ha trovato in Bangladesh rappresenta una delle più grandi crisi umanitarie: un campo profughi con molti rifugiati Rohingya, una minoranza etnica di religione musulmana del Myanmar, paese a prevalenza buddista. I Rohingya sono perseguitati, uccisi, le donne violentate, più o meno dagli anni Ottanta. Se ne parla poco, ma è davvero un'emergenza umanitaria imponente, tanto che nel 2017 circa 700 mila di loro sono passati dal loro territorio al Bangladesh e vivono in un campo al confine, un terreno da cui non si possono spostare, con tutte le necessità che si possono immaginare e soprattutto con malattie di ogni genere. Durante la stagione delle piogge e dei monsoni è praticamente un territorio invivibile! Nel campo profughi è quindi scoppiata un'epidemia di difterite e, nelle loro condizioni, come si può immaginare, basta una persona malata e si contagiano tutti, per le mille necessità e per le condizioni igieniche praticamente inesistenti. I Rohingya non hanno diritto a niente, solo aiuti umanitari da parte dell'Alto Commissariato ONU e da Medici senza Frontiere. A questo punto Cristina Turbanti fa scorrere sul video alcune fotografie dell'ospedale da campo, dove anche i medici e gli operatori super - vaccinati, insieme a staff sanitari del luogo (che venivano appositamente formati e fungevano anche da interpreti), indossavano costantemente le mascherine, come i malati, messi in isolamento per evitare la diffusione totale dell'epidemia. Stanze, materassi, posti letto, organizzazione sanitaria (ricovero, degenza, dimissioni, profilassi antibiotica, medicine, ecc.) sotto i tendoni messi a disposizione dall'UNHCR, ma con i pazienti con cui era possibile intervenire, perché purtroppo i pazienti più gravi erano destinati alla morte.
"Questa è stata la parte più dura di questa esperienza - dice Cristina - oltre a vedere con i miei occhi le condizioni in cui vivevano i rifugiati. I bambini, senza alcuna colpa al mondo, se prendevano questa malattia e ne erano colpiti in modo grave, morivano, perché se non presa in tempo sviluppa complicanze cardiache, neurologiche e in un campo profughi non c'era alcuna speranza per loro. Guardarli morire, con i genitori a fianco, è stato il momento più difficile. La sera poi, quando andavi a dormire, il pensiero di questo popolo senza un futuro era in grado di toglierti il sonno, nonostante la stanchezza!".
Nel campo, intanto, gli operatori presenti si sono organizzati addirittura con una carriola al posto del carrello sanitario per portare le cartelle cliniche, i medicinali e tutto il necessario per fare il giro tra i pazienti, a dimostrazione che quel corso preventivo di Tropical Nursing era davvero necessario! Per altro l'epidemia di difterite, debellata in Occidente da decenni, ha rappresentato una difficoltà in più nel reperimento del medicinale antidifterico che ogni volta che arrivava al campo profughi, portato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, rappresentava davvero oro puro!
Dopo questa esperienza Cristina Turbanti è tornata a casa, meditando su quanto ha vissuto, un'esperienza davvero forte, tanto che il solo veder nascere un ospedale da campo in soli due giorni le ha fatto scrivere in un messaggio ai genitori: "Qui mi sembra di vivere in un film!"... Invece è stato tutto vero, ma prima di mettere definitivamente in archivio l'esperienza del Bangladesh, con Cristina si è parlato delle donazioni che arrivano all'organizzazione che vive soltanto di queste e non ha finanziamenti da parte di alcuno Stato. Interessante sapere che il 90% delle donazioni vengono girate operativamente ai vari progetti aperti in ogni parte del mondo e, anche attraverso le foto proiettate sul maxischermo, tutti i presenti all'iniziativa di Polverigi hanno potuto vedere non solo un ospedale tirato su in due giorni, ma materassi, medicinali, attrezzature sanitarie.
"L'impatto con questa seconda missione - dichiara Cristina - mi ha vista sicuramente più consapevole. Mi fido molto di Medici senza Frontiere e mi sento sicura quando sono con loro. Non sapevo cosa mi aspettasse, perché è vero che leggi i documenti dell'intero progetto, ma finché non sei lì, non sai niente. Inoltre ero già stata in Africa, ma la Sierra Leone è davvero uno dei Paesi più poveri del mondo e forse questo impatto è stato duro, vedere le condizioni in cui vivono, i bambini che muoiono... A parità di emergenza, però, l'Africa è un'altra cosa rispetto, per esempio, al Bangladesh, dove i bambini ti guardavano davvero con tanta tristezza negli occhi al punto che non riuscivo a contraccambiare il loro sguardo. L'africano, forse anche per natura, è più spensierato, sorridente, solare, sì, ti rende tutto un po' più leggero, ovviamente non dimenticando che comunque il contesto è sempre piuttosto critico. In Sierra Leone abbiamo affiancato il personale locale, a cominciare dalla risistemazione delle strutture sanitarie. Il contesto era prettamente rurale, ma pur se i nostri alloggi distavano appena dieci minuti a piedi dai nostri uffici, non potevamo, per questioni di sicurezza, girare a piedi e la macchina a bordo della quale viaggiavamo spesso è rimasta impantanata con le ruote, al punto che ognuno che passava provava a dare una mano, anche le donne e i bambini che ci aiutavano a portare pietre da mettere sotto le ruote e con loro poi ho fatto anche una foto. Abbiamo aiutato il personale locale governativo ad operare in queste strutture, funzionali, ma molto essenziali, ma i casi più gravi li portavamo negli ospedali pubblici attraverso una specie di zattera. Lo staff locale abbiamo detto che era governativo, ma in realtà sarebbe più normale dire che era volontario perché non era affatto pagato, tant'è che era anche scarsamente motivato e chiedeva soldi ai pazienti per i medicinali, così chi non aveva soldi doveva rifiutare di curarsi perché non poteva permettersi le cure. Anche da questo punto di vista è stata una lotta: dovevamo spiegare che i medicinali li avevamo portati noi e loro non dovevano assolutamente farli pagare. In realtà il governo doveva garantire l'arrivo e la distribuzione di vaccini e medicinali ogni tre mesi, ma spesso questo non avveniva, a volte per un cambio di politici al vertice che generava una sorta di black out nella distribuzione. In queste strutture c'era anche una sala parto, perché il progetto che scadrà nel 2020 è destinato a donne incinte e bambini sotto i cinque anni, al fine di ridurre la mortalità infantile. Quindi una giornata tipica era con queste strutture piene di donne e bambini, le donne perché venivano a fare i controlli necessari alla gravidanza e i piccoli per i vaccini. E noi non operavamo direttamente, ma facevamo assistenza al personale locale a cui abbiamo insegnato anche a sterilizzare tutti gli strumenti chirurgici per il parto, ad esempio".
"In realtà abbiamo lavorato anche su questo, nel senso che per motivare di più lo staff locale, per far in modo che i pazienti possano ricevere le medicine gratuitamente, è stato fatto un accordo con il governo (perché poi con Medici senza Frontiere lavoro io che sono un'infermiera, lavora il responsabile della logistica, l'amministratore, il capo-progetto, ecc., in una macchina enorme che gira a pieno ritmo), per il quale nel primo anno Medici senza Frontiere si impegnava a coprire tutti gli stipendi dei lavoratori e le spese, il secondo anno 50% a testa con il governo, così pure per il terzo anno, mentre dal quarto anno tutto passerà in mano al governo".
Si può fare, non dico l'abitudine, ma si fa mai pace con tutte queste immagini terribili che hai visto, con la morte dei bambini, con la miseria, con le situazioni terribili a cui hai assistito?
"Con un buon psicanalista, sì!"
E adesso?
"Adesso mi prendo una bella pausa, sto imparando il francese per poter ampliare un po' l'orizzonte degli interventi umanitari, vorrei crearmi anche un futuro professionale qui. Probabilmente mi dedicherò in futuro a progetti un po' più brevi, un paio di mesi al massimo".
Se un giovane volesse fare il tuo percorso, quali consigli potresti dargli?
"Beh, prima di tutto di volerlo davvero, perché è un percorso che richiede parecchi sacrifici ed è stressante sia a livello fisico che mentale. Poi di sicuro di cominciare a viaggiare, andando a vedere realtà e Paesi in via di sviluppo. E' già una buona base per capire se si è tagliati per vivere questa esperienza così speciale. Poi per la parte burocratica, ma anche per i requisiti richiesti, la domanda da inviare, ecc., si può far riferimento a una qualsiasi sede di Medici senza Frontiere, a partire da quella più vicina, ovvero quella di Ancona".
Cristiana Carnevali
(Grazie a Claudio Caporaletti per le foto)